Da diverse parti è stata rilevata l’incoerenza politica delle piattaforme dei social media e quasi sempre la si è attribuita alla personalità dei loro fondatori.
di Bobbie Johnson
La minaccia del presidente Donald Trump di modificare profondamente la Sezione 230 – la legge sulla libertà di parola che protegge le piattaforme dei social media dalla responsabilità per ciò che postano i loro utenti – potrebbe risultare impraticabile. La storia è stata innescata dalla decisione di Twitter di etichettare due dei tweet del presidente come disinformazione e ha alimentato immediatamente gli stereotipi della sinistra e della destra: un presidente testardo e vendicativo che non riesce a tenere le mani lontane dalla tastiera, e una massa di liberali selvaggi della Silicon Valley che si oppongono pervicacemente ad ogni sua mossa.
Le aziende social garantiscono che le decisioni vengono prese con cura, anche se non è facile camminare sul filo del rasoio. Controllare i tweet del presidente sul voto per corrispondenza, ha richiesto una profonda riflessione. Ieri, infatti, il CEO di Facebook Mark Zuckerberg ha detto ai dipendenti che la sua posizione su Trump è stata una “decisione difficile” che ha richiesto un “lungo approfondimento”.
È facile prendere questa affermazione alla lettera. Dopotutto queste aziende sono sistemi complessi e tentacolari, quindi sicuramente anche queste decisioni sono complicate. Le aziende hanno miliardi di utenti e molte migliaia di dipendenti, il che spesso dà loro la sensazione di vivere in una democrazia vivace, seppure esasperante, o di essere quantomeno una burocrazia efficace.
In realtà, tuttavia, le cose sono molto meno complicate e molto più frutto di scelte di quanto appaiano. Le aziende di social media potrebbero sembrare nuove, con giovani amministratori delegati, ma dietro le quinte sono molto simili agli studi cinematografici e alle aziende di media vecchio stile, vale a dire vasti feudi, strettamente controllati dai loro capi.
Mantenere il controllo
Si prenda Facebook. Zuckerberg ha un notevole controllo sulla sua attività. Oggi possiede circa il 14 per cento dell’azienda, ma quasi il 60 per cento delle azioni con diritto di voto. Questo lo rende quasi invulnerabile. L’anno scorso, durante l’assemblea annuale degli azionisti di Facebook, il 68 per cento degli investitori indipendenti ha votato per rimuoverlo come presidente e sostituirlo con un esterno; Zuckerberg ha invece votato per confermare la sua carica.
Fin dall’inizio, la maggior parte delle cose in azienda sono state fatte come vuole lui. Per enfatizzare la sua influenza, ogni singola pagina di Facebook fino al 2007 riportava il testo “A Mark Zuckerberg Production”. Un decennio dopo, quando è stato accusato di avere un atteggiamento negligente nei confronti della manipolazione politica, ha risposto mettendo da parte molti dei suoi luogotenenti e dicendo che aveva finito di essere un leader in tempo di pace.
Questa negligenza è dovuta in parte al fatto che, sebbene sia ossessionato dal controllo dei diversi livelli del prodotto, preferisce affidare le aree che non gli interessano direttamente a sistemi che funzionano senza richiedere la sua supervisione diretta. Ecco perché, per contrastare la mancanza di interesse di Zuckerberg nella moderazione dei contenuti, l’azienda ha sviluppato regole scrupolose e a lungo termine.
Ma, anche se ha persino introdotto un “comitato di sorveglianza”, l’universo di regole sono state applicate in modo incoerente. Il risultato è un luogo in cui la parola “capezzoli” può essere vietata mentre i richiami al genocidio vengono pubblicati o i politici statunitensi vengono considerati una classe protetta mentre i leader stranieri vengono liquidati senza troppe cerimonie.
Ciò è in parte dovuto al fatto che, come chiarito dalla controversa e segreta telefonata di fine maggio di Mark Zuckerberg all’Ufficio ovale, le regole si applicano solo fino a quando l’amministratore delegato lo desidera. Come ha dichiarato su “CNBC” la giornalista Kara Swisher: “Non si tratta di Mark e dei suoi seguaci, ma solo di Mark. Ha una conoscenza approfondita del Primo Emendamento … ma ha preso la sua decisione, e la sua decisione è lo stato di diritto su Facebook”.
#staywoke
Anche su Twitter regna l’influenza del CEO Jack Dorsey, sebbene in modo molto diverso. L’approccio dell’azienda alla moderazione dei contenuti è stato a sua volta ampiamente incoerente nel corso degli anni, ma in un modo che riflette non un irraggiungibile desiderio di legalità, ma l’ incapacità di Dorsey di sapere cosa vuole.
Twitter non si è mai allontanata dalla politica allo stesso modo di Facebook. Una volta ha ritardato i tempi di inattività programmati su richiesta di Obama per aiutare a fomentare una potenziale rivoluzione in Iran. E Dorsey ha corteggiato notoriamente i leader di Black Lives Matter sulla scia delle proteste di Ferguson nel 2014, facendo apparizioni pubbliche con una maglietta con l’hashtag #staywoke.
Ma strizza l’occhio anche alla destra. Per esempio, ha raccontato al commentatore televisivo conservatore Joe Rogan che il sito è stato troppo duro con gli utenti di destra, si è dissociato dalle minacce violente e dagli abusi sulla piattaforma e ha spiegato che Twitter non vietava gli interventi del teorico della cospirazione Alex Jones mentre poco prima lo aveva bannato.
Twitter non ha mai cercato davvero di essere coerente, ma ha posto attenzione solo alla crescita. L’azienda avrebbe ora difficoltà a sostenere, come ha fatto in passato, di essere il baluardo della “libertà di parola”. L’azienda può condannare gli abusi e contemporaneamente costruire strumenti che amplificano la disinformazione.
Dorsey è stato chiaro in passato: Trump può infrangere le regole perché fa notizia. Costituisce una “eccezione di interesse pubblico”, ma essenzialmente significa che più un personaggio è importante, meno responsabilità si deve assumere l’azienda.
Dorsey si è assunto una qualche forma di responsabilità per il battibecco di Twitter con la Casa Bianca (si veda link). Ma non è quello che paga il prezzo più alto. Le persone che sopportano il peso maggiore della sua indecisione sono i suoi dipendenti, che stanno affrontando minacce di morte per fare il loro lavoro.
Una mancanza di responsabilità
Tutte le aziende hanno fondatori, leader e decisori. Hanno il diritto di prendere le proprie decisioni, purché siano legali. Ma la legge richiede anche che le imprese pubbliche non agiscano come regni personali, ma rispondano agli azionisti di quanto fanno. Per ora, quegli investitori sono più interessati al denaro che alla responsabilità, ma poiché alla Silicon Valley piace distribuire azioni ai propri lavoratori, molti azionisti sono gli stessi dipendenti che sono interessati da queste decisioni arbitrarie. E stanno iniziando a manifestare il loro disagio con proteste pubbliche e dissenso interno.
Ma vige un sistema monarchico. Zuckerberg e Dorsey sono inamovibili. In che modo questi sovrani accetteranno di cambiare? Chi stanno ascoltando? E perché dovrebbero smettere di seguire le politiche che li hanno resi miliardari? Gli americani sono costretti ad assistere allo spettacolo di leader chiassosi che fanno scelte arbitrarie e difensive basate sull’istinto e sull’autoconservazione: su Facebook, su Twitter e per le strade.
Ecco perché, nonostante gli stereotipi e i conflitti violenti, Zuckerberg e Dorsey hanno più somiglianze con Trump che differenze. Sono uomini d’affari abituati a farsi strada. Sono diventati ricchi molto presto, vivono in uno stato d’isolamento dorato e hanno costruito ambienti intorno a loro dove la loro parola è davvero l’unica cosa che conta. Prendono “decisioni difficili” che sembrano incoerenti o confuse perché, alla fine, l’unica vero filo conduttore è che sono loro a comandare.
(rp)