Una parte consistente del “prodotto interno lordo” dello Stato Islamico deriva dal petrolio.
di Luca Longo
Sono necessari grandi finanziamenti per mettere in campo l’enorme numero di armi e mezzi che hanno permesso a ISIS di consolidarsi in Iraq, Siria e parte della Libia, di fagocitare Al Quaeda e di attrarre sotto il proprio controllo altre bande terroristiche provenienti dal centro africa (come Boko Haram, che dalla Nigeria estende le proprie razzie in tutti i Paesi del Sahel).
Una parte consistente del “prodotto interno lordo” dello Stato Islamico – si parla di oltre la metà – deriva dal petrolio. Secondo recenti stime del governo USA, pare basate sull’intercettazione di rapporti riservati del Diwan al-Rakaaez dell’ISIS (l’equivalente del ministro delle finanze), il califfato guadagna almeno 50 milioni di dollari al mese dall’estrazione e dalla vendita illegale di petrolio a prezzo di saldo: dai 35 $ fino a soli 10 $ al barile.
Infatti, la strategia di espansione di ISIS in Iraq e Siria non ha fatto altro che puntare al controllo dei pozzi petroliferi. Non è un caso che la maggior parte del petrolio controllato dal califfato si trovi nella Siria orientale. Qui i terroristi si sono stabiliti nel 2013, poco dopo il ritiro dal nord-ovest: un settore di importanza strategica ma privo di petrolio..
L’ultimo pozzo siriano è stato conquistato a luglio 2015: i terroristi controllano ora 253 pozzi petroliferi e di questi circa 161 risultano ancora operativi. Secondo il comitato parlamentare per l’Energia del legittimo governo dell’Iraq, ISIS estrae ora 30.000-40.000 barili di petrolio al giorno dalla Siria e circa 20.000 dai pozzi iracheni attorno a Mosul, anche se circa metà di questi ultimi producono solo olio pesante per asfalti.
La gestione di pozzi di estrazione, o addirittura di raffinerie, è tutt’altro che banale. Mentre è certo che ISIS non possegga – ad oggi – i mezzi e le conoscenze necessarie per effettuare prospezioni petrolifere o nuovi scavi, è in grado di mantenere in efficienza almeno parte dei pozzi. Va sottolineato che non si ha più traccia di 275 ingegneri e 1107 operai specializzati che gestivano i pozzi siriani prima dell’invasione; ma pare molto improbabile che questi, anche se ancora vivi e disponibili a continuare a lavorare, possano da soli effettuare le continue e delicate manovre di regolazione necessarie al funzionamento dei pozzi di estrazione, né tantomeno siano in grado di intervenire efficacemente in caso di serie avarie.
Per ovviare a questi problemi in attività critiche per la sopravvivenza stessa dello Stato Islamico, gli Jihadisti lavorano su tre versanti. Prima di tutto hanno lanciato proposte di ingaggio a manager e ingegneri esperti nella gestione dei pozzi. I salari offerti arrivano a 225.000 $/anno. Gli interessati devono inviare curriculum dove dimostrano tanto la loro competenza tecnica quanto la loro devozione alla causa jihadista.
In secondo luogo, pare abbastanza evidente che gli Stati che finanziano sottobanco il califfato siano altrettanto interessati ad inviare – oltre al denaro – anche macchinari e personale esperto. Risorse che non dovrebbe essere difficile reperire fra gli Stati del Golfo e del Medio Oriente.
Infine, lo Sato Islamico pare avere dimostrato ampie competenze nel settore del “fai da te”. A Deir ez-Zor – la sesta più grande città siriana e la capitale dell’industria petrolifera locale prima che le sanzioni imposte nel 2011 bloccassero i contratti con Shell e Total – gli impianti di raffinazione, in buona parte distrutti nel corso della guerra civile, sono stati rimpiazzati da decine di microraffinerie a gestione familiare, dove un serbatoio metallico una volta adibito alla raccolta di acqua e ora pieno di greggio viene sospeso sopra un fuoco alimentato dal greggio stesso. La frazione che evapora viene incanalata in tubi che portano a trincee sotterranee piene d’acqua. Qui la frazione estratta viene raffreddata, condensata e raccolta alla fine delle trincee sotto forma di kerosene (se si mantiene la temperatura del greggio nella cisterna fra i 150-250°C) o a diesel (a temperature attorno ai 300°C a seconda della natura del greggio). Entrambi i prodotti sembrano utilizzabili rispettivamente per il riscaldamento oppure per generatori e trasporti.
Alla gestione di questi impianti, facilmente individuabili dalle colonne di fumo nero che sprigionano, vengono adibiti bambini che spesso rimangono vittime di esplosioni dovute a perdite o alla sovrappressione generata da temperature troppo alte. Inutile parlare delle problematiche connesse con la salute e l’ambiente anche quando l’intero processo non incontra difficoltà.
Pure la distribuzione del greggio, o dei suoi rudimentali derivati, viene effettuata in modo non convenzionale. Gli oleodotti in superficie sono stati sabotati all’inizio dell’invasione dagli stessi terroristi, e comunque, anche se rimessi in attività, risulterebbero troppo vulnerabili. Ma sono stati individuati presso Besaslan brevi oleodotti sotterranei proprio a cavallo della frontiera turca. Questi permettono ai terroristi di pompare petrolio verso brokers in Turchia meridionale che provvedono a loro volta alla vendita al dettaglio.
Quello che oggi è certo, è che convogli costituiti da centinaia di autocisterne, incluse autobotti precedentemente adibite al trasporto di acqua e persino camion dei pompieri, partono giorno e notte da Raqqa per passare clandestinamente in Turchia lungo rotte che si distaccano dalla strada per Aleppo, oppure verso sud per poi passare in Medio Oriente. Alcune autobotti sono di proprietà di commercianti indipendenti, che acquistano il greggio direttamente sui campi petroliferi o presso i “mercati” di Manbij o al-Bab, oltre Aleppo, trasportandolo con autobotti di proprietà. Sono stati anche individuati contrabbandieri a piedi o a cavallo, che trasportano petrolio o derivati in taniche caricate sulle spalle filtrando attraverso la molto vaga frontiera settentrionale.
Il passaggio dell’Eufrate avviene con un sistema di barche traghetto collegate alle due rive da corde tirate alternativamente da terra. Ma la maggior parte delle esportazioni è costituita da convogli gestiti direttamente da ISIS che provvede a scortarli finché non vengono ceduti a broker che a loro volta li passano ad altri intermediari, finché il petrolio non risulta “ripulito” dalle proprie impresentabili origini ed è pronto per entrare nei rispettabili canali di distribuzione ufficiali. Il detto latino “pecunia non olet” pare che valga anche qui.
I terroristi certamente non hanno conoscenze e tecnologie necessarie per nuove esplorazioni o anche trivellazioni in aree note ma possono, con complicità specializzate provenienti dall’esterno, solo gestire pozzi e impianti esistenti. Mentre il valore di una autocisterna è inferiore al valore di un missile, la posizione di ogni singola testa pozzo è nota con l’approssimazione di qualche millimetro alle compagnie che l’hanno perforata ed è facilmente individuabile coi satelliti.
Attacchi mirati e concertati su queste permetterebbero allo stesso tempo di bloccare la produzione alla fonte e di ripristinare con relativa semplicità la produzione quando il campo petrolifero sarà riconquistato. Lo stesso si può dire delle raffinerie ancora attive, mentre quelle “fai da te”, ancorché effimere, verrebbero comunque lasciate all’asciutto dal blocco dei pozzi.
Un fattore non secondario è che questi obiettivi, di solito isolati in mezzo al deserto, comporterebbero un numero decisamente inferiore di vittime civili rispetto ai bombardamenti di veri o presunti – centri militari collocati nelle città.
(MO)