La natura, con le sue bizzarrie, ha fatto in modo che certi elementi si concentrassero in grandi quantità in certi luoghi piuttosto che in altri: stiamo parlando dei minerali e dei metalli preziosi, utili all’industria mondiale, nei paesi in via di sviluppo. Per il nichel e il cobalto per esempio, è previsto il raddoppio della domanda entro il 2030. Tuttavia, le riserve di questi minerali potrebbero esaurirsi entro un quarto di secolo. Le soluzioni in vista sono poche, anzi pochissime. Forse una ce ne è: i fondali oceanici.
di Fonte Eni
Riavvolgendo la pellicola delle immagini di almeno mezzo secolo, anzi, ancora di più, fino all’impero romano, che più facilmente affiorano alla mente, almeno per quanto riguarda l’Italia, sono quelle dell’Elba, di Cogne, dell’Iglesiente e dell’Amiata.
Parliamo delle miniere.
Ferro, argento e rame, uniche nel loro genere. Da quelle toscane di cinabro, si estraeva il mercurio. Quelle di ferro, invece, si sono gradualmente esaurite. Lo stesso è accaduto per i giacimenti della Sardegna. Quelle di mercurio, avrebbero potuto resistere ancora qualche decennio (fino agli anni Settanta del secolo scorso, metà del mercurio estratto nel mondo proveniva dall’Amiata), ma la consapevolezza dei pericoli sanitari connessi a quello strano e utilissimo minerale (il solo a esistere in fase liquida a temperatura ambiente) ne impose la rinuncia.
Oggi, in Toscana, Sardegna e Val d’Aosta non ci sono più miniere, ma bellissimi musei minerari. Un cambio di orizzonte quasi assoluto, dunque. E che vale per gran parte delle attività minerarie europee. Così che oggi si va a cercare il rame e l’oro in Cile o in Australia, i diamanti in Sudafrica, ancora oro e rame in Indonesia, il litio (preziosissimo per le batterie di smartphone e auto elettriche) in Bolivia, il nichel in Russia e nelle Filippine, il cobalto nella Repubblica Democratica del Congo.
Vuoi perché i giacimenti di minerali e dei metalli più preziosi e utili all’industria mondiale presenti nei paesi in via di sviluppo sono stati finora relativamente poco sfruttati, vuoi per le bizzarrie della natura che ha fatto in modo che certi elementi si concentrassero in grandi quantità e in condizioni di relativamente facile accesso in certi luoghi e non in altri (i casi più eclatanti sono quelli del litio in Bolivia e del mercurio in Italia).
Ma anche queste grandi riserve sono destinate ad assottigliarsi. Prendiamo il caso del nichel: l’industria mondiale degli acciai speciali, oltre a quelle delle batterie e degli acciai comuni, ne consuma grandi quantità, circa 2 milioni di tonnellate all’anno. Al 2030 si prevede che la domanda raddoppierà e le riserve accertate sono di circa 76 milioni di tonnellate; dunque, nell’arco di un quarto di secolo il nichel potrebbe finire.
Secondo caso, quello del cobalto: viene utilizzato in innumerevoli processi industriali, dalle leghe metalliche alle batterie. Le riserve ammontano a circa 7 milioni di tonnellate; se ne consumano circa cento mila tonnellate all’anno e la domanda continua a crescere. Anche in questo caso tra un quarto di secolo le miniere potrebbero esaurirsi. Soluzioni in vista? Poche, pochissime. Anzi, forse una soltanto: i fondali oceanici.
Pro e contro delle riserve di minerali marine
Nella sola immensa piana abissale che si estende dalle isole Hawaii alla California si celano forse più di 100 milioni di tonnellate di nichel e almeno una decina di milioni di tonnellate di cobalto. Sembra fantascienza. Eppure è proprio la direzione verso la quale molte grandi compagnie minerarie hanno deciso di guardare, nonostante i problemi di ordine tecnologico, giuridico e ambientale.
Ma prima di esaminarli, vediamo in quale forma i metalli più richiesti si celano nei fondi marini. Si tratta, essenzialmente, di tre tipologie di giacimenti.
La prima è quella degli ammassi solforati. Si tratta di accumuli di metalli legati allo zolfo che si sono formati in seguito alle attività vulcaniche sottomarine. Questi ammassi contengono quantità importanti di zinco, piombo e oro.
Il secondo tipo di giacimenti è costituito dalle croste cobaltifere. Le correnti che scorrono lungo i pendii delle montagne sottomarine inducono la precipitazione dei sali dei metalli trasportati dai flutti, fino a creare delle croste minerali che possono contenere anche notevoli quantità del prezioso metallo.
Ma sono i giacimenti della terza tipologia a suscitare il maggiore interesse industriale: i noduli polimetallici. Si tratta di concrezioni minerali formate soprattutto da manganese, ma anche da una quota, pari, in generale, al 3 per cento di nichel, rame e cobalto. Il vantaggio dei noduli è semplice: sono facili da raccogliere, perché giacciono a pochi centimetri di profondità nel fango dei fondali oceanici.
Alcuni problemi sono ancora da risolvere
I primi sono di ordine tecnologico. Raccogliere gli ammassi solforati non è sempre agevole: si trovano su fondali ricchi di avvallamenti e tortuosità, sui quali operare può essere spesso molto impegnativo. Per quanto concerne le croste cobaltifere il problema è quello di riuscire a staccare quantità significative di questo materiale, che si trova spesso a profondità proibitive. Meglio, allora, i noduli. La concentrazione dei metalli di pregio che racchiudono è bassa, ma si tratta di un lavoro relativamente facile: dragare un fondale per lo più in piano, con macchinari già esistenti e di facile utilizzo.
La seconda categoria di problemi riguarda gli aspetti giuridici. I giacimenti finora osservati ricadono in acque internazionali, per cui il loro sfruttamento deve essere autorizzato dalla International Seabed Authority (ISA), costituita sotto l’egida dell’Onu nell’ambito della Convenzione sul diritto del mare (UNCLOS, in inglese). Finora, la ISA ha deliberato 28 permessi di sfruttamento sparsi un po’ ovunque nel mondo, intestati a 20 diversi paesi. Ma si tratta di permessi di prospezione e non ancora di effettivo sfruttamento. Anche fosse, su un permesso di ricerca che normalmente ha una superficie compresa tra 50 e 150 mila chilometri quadrati di fondale, le aree sfruttabili economicamente potrebbero al massimo essere pari a un decimo, e non è detto che i conti economici dell’impresa siano sempre positivi.
Infine, l’aspetto ambientale. Si tratta della questione più delicata: per raccogliere il cobalto occorre dragare i fondali per uno spessore di 10-15 centimetri almeno, sconvolgendo l’ecosistema marino profondo; un primo sistema di separazione tratterrebbe i noduli polimetallici insieme ad altri materiali a grana rossa, liberando a notevoli profondità vere e proprie nuvole di fango che impiegherebbero non poco tempo a ricadere sul fondo; arrivati in superficie i noduli verrebbero lavati e avviati alla lavorazione, generando altre notevoli quantità di residui fangosi.
Nel complesso, non è detto che sia la soluzione del domani, anche se, va ricordato, le attività minerarie che si svolgono sulla terraferma presentano quasi tutte impatti ambientali analoghi, se non addirittura superiori, a quelli che si potrebbero incontrare in mare aperto.
Immagine: Nichel, Wikimedia Commons
(rp)