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    Le piante che difendono l’ambiente

    Ripulire i terreni inquinati con le piante: ora si può. La ricerca Eni descrive come determinate combinazioni di piante e di particolari microrganismi permettono la bonifica di terreni inquinati da metalli pesanti e composti organici.

    di Luca Longo

    Metalli pesanti altamente tossici, composti organici e clorurati… Sono solo alcune delle sostanze che possono restare nel terreno come residui di attività industriali e diventare responsabili dell’inquinamento ambientale e dell’avvelenamento di piante, animali e, potenzialmente, dell’uomo.

    Per bonificare un sito con i metodi tradizionali bisogna scavare il suolo contaminato e poi scaricarlo altrove, oppure riversarlo in un impianto dove, con una combinazione di trattamenti chimici, fisici, termici e biologici, gli inquinanti vengono estratti o degradati in composti meno pericolosi. In questo modo però, all’inquinamento già presente si aggiunge quello provocato dalle stesse tecnologie di risanamento. Il pulviscolo sollevato con l’asportazione del suolo contaminato, il trasporto con camion o altri mezzi fino all’impianto di bonifica contribuiscono infatti a disperdere nell’ambiente le sostanze inquinanti, insieme alle polveri sottili.

    C’è un’alternativa all’orizzonte: Eni sta sviluppando processi di bonifica a basso impatto ambientale in grado di ridurre gli inquinanti presenti nel suolo a livelli non più pericolosi per la salute dell’uomo; o anche di eliminarli del tutto. La ricerca è condotta nell’unità Tecnologie Ambientali del Centro Ricerche per le Energie Rinnovabili e l’Ambiente di Novara, in collaborazione con l’Istituto per la Ricerca sugli Ecosistemi Terrestri (IRET) del CNR di Pisa, per conto di Eni Rewind la società del Cane a sei zampe dedicata al risanamento ambientale.

    Una delle tecnologie di bonifica in situ più promettenti si chiama fitorimedio (dall’inglese phytoremediation) e sfrutta la naturale capacità delle piante di estrarre dal suolo i metalli pesanti ed eliminare i composti organici. Le piante catturano l’energia del Sole e svolgono la loro azione depurante sul posto, senza necessità di spostare terreno. Questo processo naturale migliora le caratteristiche chimico-fisiche del suolo fino a ottenere una vera e propria riqualificazione ambientale e paesaggistica.

    I meccanismi principali sono due: nel primo, chiamato fitoestrazione, le piante estraggono dal terreno i metalli pesanti e li accumulano nelle radici e nelle foglie. Nel secondo, detto fitorizodegradazione, sfruttano la sinergia tra i vegetali e i microrganismi cosiddetti rizosferici presenti intorno e all’interno delle loro radici, per biodegradare i contaminanti organici, trasformandoli in altre molecole più semplici e meno tossiche che vengono metabolizzate (quindi eliminate) dalle piante stesse. Quando la loro azione è sostenuta da particolari batteri promotori della crescita (Plant Growth Promoting Rhyzobacteria) si parla di fitorimedio assistito (enhanced phytoremediation).

    Grazie ai test di laboratorio e alle prove in serra e in campo svolte dai biologi e dai microbiologi del Centro Ricerche per le Energie Rinnovabili e l’Ambiente, sono state individuate le condizioni ottimali per applicare il fitorimedio assistito in aree contaminate da metalli pesanti e idrocarburi.

    I ricercatori hanno caratterizzato le migliori specie vegetali per le differenti tipologie di contaminanti e definito le associazioni microrganismi/piante con la resa più alta. Dimostrata l’efficacia della tecnologia, il passo successivo è definire protocolli di intervento in campo, condivisi con gli Enti pubblici preposti alla tutela dell’ambiente e della salute. La fitoestrazione rappresenta una valida alternativa ai trattamenti fisici e termici grazie alla grande biodiversità del regno vegetale e alle numerose specie in grado di svilupparsi e di accumulare metalli pesanti anche su terreni contaminati.

    Tutte le specie selezionate, visualizzate nell’immagine a fianco, si sono già dimostrate in grado di estrarre ed accumulare nelle radici e nelle foglie quantità significative di diversi metalli, con efficienze variabili dal 35% al 40% per ogni ciclo vitale. È possibile ipotizzare che in campo, dopo 3-5 successivi cicli stagionali, si arrivi ad eliminare completamente la frazione biodisponibile dei metalli pericolosi.

    Un ruolo fondamentale è svolto dai microrganismi rizosferici. Il processo di estrazione è stato amplificato grazie a ceppi batterici metallo-tolleranti, cioè in grado di sopravvivere alla presenza di quei particolari metalli. Dove trovarli? Proprio in alcuni degli stessi terreni contaminati, in cui si erano adattati a vivere! Una volta rilevati, i ricercatori li hanno caratterizzati, coltivati in laboratorio e, infine, inoculati nel terreno.

    Perché il loro ruolo è così importante? Aggiunti al terreno seminato con le diverse piante, questi microrganismi hanno permesso di migliorare significativamente le prestazioni dei vegetali, sia come crescita, che come efficienza di fitoestrazione. Questa è aumentata del 40-50%, permettendo di estrarre fino al 60% dei metalli inquinanti biodisponibili in una sola stagione e quindi di raggiungere in tempi molto più rapidi gli obiettivi stabiliti per la bonifica. Ma c’è di più: gli stessi microorganismi “benefici” sono anche potenzialmente idrocarburo-ossidanti, permettono cioè la biodegradazione degli inquinanti organici. Il risultato è un recupero ambientale efficiente, sostenibile e a costi ridotti rispetto alle convenzionali tecniche chimico-fisiche.

    Quando i metalli che inquinano il terreno sono particolarmente preziosi, come ad esempio alluminio, piombo o zinco, la loro vita non finisce nelle piante che li hanno catturati. Possono al contrario essere recuperati dalle ceneri delle piante stesse, per essere riutilizzati, attraverso processo definito phytomining. Non solo vantaggi ambientali.

    Al processo di bonifica del suolo possiamo associare anche la valorizzazione a scopi energetici della biomassa prodotta. Questa, se bruciata in modo controllato, può produrre energia termica, essere trasformata in biogas o biofuels oppure essere riutilizzata per la produzione di materiali di riciclo.

    Leggi qui l’articolo originale

    (lo)

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