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    Ancora sulla distanza, ma più da vicino

    Ci voleva la pandemia che, come dice il nome stesso, tende ad annullare le differenze costringendo tutti nella stessa barca, di fatto e di diritto, per porre in questione il tradizionale e apparentemente irriducibile divario tra ciò che si fa e ciò che si pensa.

    di Gian Piero Jacobelli

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    Come si diceva una volta, non c’è più religione: le esperienze che si fanno nella vita di tutti i giorni, anche quelle purtroppo dolorose purtroppo, confluiscono nelle riflessioni che quelle stesse esperienze suscitano e diffondono.

    I regolamenti che ci governano, impongono il distanziamento interpersonale? Questo distanziamento si ribalta immediatamente in una riflessione sulla distanza, coinvolgendo tutti quei modi di dire – “stare a distanza”, “prendere le distanze”, “distante dagli occhi, distante dal cuore” e via dicendo – con cui la saggezza popolare si faceva carico della dialettica implicita nella distanza stessa. Che, da un lato, procura sofferenza in quanto lede le relazioni faccia a faccia, ma dall’altro lato appare indispensabile per non farsi irretire e coinvolgere eccessivamente da queste relazioni.

    Su questi temi Laura De Luca, giornalista, scrittrice e artista di vaglia, ha scritto un prezioso libro – Elogio della distanza, Armando Editore, 2020 – di riscontri, considerazioni, riflessioni che, più di riflettere qualcosa del mondo circostante, riflettono i fremiti e i tremori, le “voci di dentro” di chi, dalla forza delle circostanze, si sente costretto a volgere alternativamente l’attenzione dai minimi ai massimi sistemi. Tornano così in questione le ipotesi filosofiche concernenti le opposizioni tradizionali, tra l’alto e il basso, il sotto e il sopra, il grande e il piccolo, nonché il vicino e il lontano, appunto.

    Per inciso, si può notare come suoni piuttosto anacronistico il “lontano”, perché la agenda setting della pandemia ha finito per dettare anche le evoluzioni terminologiche. Sino a ieri sulle piattaforme filosofiche si parlava prevalentemente di “lontananza”, mentre ora si parla di “distanza”, riecheggiando le formule dei decreti ministeriali che evidentemente, per la loro minacciosa prossimità con la dimensione della malattia e della morte, assumono un valore tanto emblematico quanto anche linguisticamente esemplare.

    Ma non solo si parla di distanza: di fatto la si pratica tra non poche ambiguità, come sottolinea Laura De Luca, alludendo alla diffusa inclinazione a “fare di necessità vizio”: «Il sollievo, da pochi dichiarato a riguardo, ha mimetizzato la naturale vocazione alla distanza esistenziale seppellendola nella percezione di una violenza di Stato che ha fornito di fatto l’alibi per perfezionare il solipsismo. La dichiarata nostalgia degli abbracci ne ha svelato la superfluità e l’ipocrita ridondanza da salotto, scagliandoci improvvisamente di fronte ai nostri inconfessabili vizietti privati, primo fra tutti il sogno dell’autarchia e dell’autosufficienza dell’individuo».

    Insomma, nel distanziamento coatto, alla sofferenza si aggiunge il sospetto, che diventa da personale a impersonale, facendoci percepire tutto il nostro prossimo come un rischio di contagio, per cui la gente si tiene a distanza sui marciapiedi anche se poi, contraddittoriamente, si affolla nelle piazze o nei locali pubblici.

    In effetti, sia dal punto di vista dei comportamenti sia da quello degli argomenti, la distanza emerge e si afferma nel segno di una sostanziale ambiguità. Quella ambiguità che un sociologo importante quale Zygmunt Bauman ha individuato come il tramite tra la modernità e la postmodernità, intessuta di narrazioni multiple e spesso discordanti. Quella ambiguità che uno scrittore e filosofo impareggiabile quale Elias Canetti, già in tempi non sospetti o almeno altrimenti sospetti, denunciava nella massificazione che in realtà, in una civiltà prevalentemente mediatica come l’attuale, produce una massa rarefatta, una massa a distanza in cui, anche senza convenire fisicamente, si tende piuttosto a convenire mentalmente.

    Alla insinuante ambiguità della distanza si riferisce anche Laura De Luca, anzi a una doppia ambiguità. Troppa vicinanza ci soffoca, troppa distanza ci affligge. C’è una distanza “buona” quando risponde a un rapporto dialettico con l’altro e c’è una distanza “cattiva” quando giustifica il solipsismo, che si mimetizza nelle spoglie di una partecipazione responsabile.

    Va detto che l’ambiguità sta nella origine stessa del linguaggio e della cultura, come dimostra il racconto biblico della distruzione della Torre di Babele, con la conseguente dispersione del popolo che l’aveva costruita. Per altro, non mancano i commentatori che non ritengono quello relativo a Babele un racconto di confusione, ma un racconto di creazione della differenza, vitale matrice di ogni comunicazione e di ogni relazione.

    Tuttavia, talvolta la mediazione tecnologica, invece di avvicinare, allontana definitivamente. Basterebbe ricordare come il “villaggio globale” televisivo prefigurato e propugnato da Marshall McLuhan, sia poi risultato largamente illusorio e foriero di una ulteriore conflittualità. In effetti, lo “schermo”, televisivo o telematico, scherma la realtà, ponendola a distanza e spettacolarizzandola, tanto più se sofferta.

    Non a caso, Laura De Luca conclude il suo libro polimorfico e suggestivo con un imprevedibile, ironico “appello agli alieni”: «Magari esistessero Come negli anni li abbiamo immaginati, fantasticando. […] Se fossero un’etnia, piovuta dal cielo milioni di anni fa, mischiatasi con i terrestri e oggi confusa con noi, ma non troppo? Se fossero una setta, una colonia di funghi, un grappolo di pensieri, uno dei tarli che perforano la nostra coscienza, minano la nostra pace interiore? Sarebbero la prova che la distanza è con noi, è nostra intima, nostra solidale, nostra complice e nostra controfigura. Che la distanza, ancora una volta, siamo noi».

    (gv)

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