Ricercatori hanno bypassato gli occhi con un impianto cerebrale che restituisce ai ciechi una vista rudimentale.
di Russ Juskalian
A 42 anni, una neuropatia ottica tossica distrusse i fasci di nervi che collegano gli occhi al cervello d Bernardeta Gómez, accecandola completamente. Dopo 16 anni al buio, Gómez ha potuto rivedere una parvenza del mondo, in forma di punti e forme bianche e gialle, grazie a un paio di occhiali modificati, oscurati e dotati di una minuscola fotocamera.
Il dispositivo è collegato a un computer che elabora un video live, trasformandolo in segnali elettronici. Un cavo sospeso al soffitto collega il sistema alla parte posteriore del cranio di Gómez, Grazie ad un impianto cerebrale di 100 elettrodi installato nella corteccia visiva del suo cervello. Gómez è riuscita ad identificare oggetti e persone. Ha persino potuto giocare con un semplice videogame tipo Pac-Man proiettato direttamente nel suo cervello.
Questo successo, ottenuto negli ultimi mesi del 2018, ha rappresentato l’apice di decenni di ricerca per Eduardo Fernandez, direttore del dipartimento di neuroingegneria all’Università di Miguel Hernandez di Elche, in Spagna. Il suo obiettivo: restituire la vista al maggior numero possibile di 36 milioni di pazienti non vedenti in tutto il mondo che desiderano vedere di nuovo. L’approccio di Fernandez è particolarmente interessante perché bypassa l’occhio e i nervi ottici.
Altre ricerche hanno cercato di ripristinare la vista creando un occhio o una retina artificiali. La stragrande maggioranza dei non vedenti, però, presenta danni proprio al sistema nervoso che collega la retina alla parte posteriore del cervello. Un occhio artificiale non può risolvere il problema. Nel 2015, la società Second Sight, che vende una retina artificiale in Europa dal 2011 e negli Stati Uniti dal 2013, ha dirottato due decenni di studi condotti sulla retina verso la corteccia visiva (la Second Sight informa che poco più di 350 individui stanno utilizzando il suo impianto retinico Argus II.)
Fernandez spiega che i progressi nella tecnologia degli impianti e una più raffinata comprensione del sistema visivo umano, gli hanno permesso di andare dritto al cervello. “Le informazioni che si muovono nel sistema nervoso sono le stesse condotte da un dispositivo elettrico”, afferma.
L’idea di ripristinare la vista alimentando i segnali direttamente al cervello è ambiziosa, ma i principi di base sono utilizzati da impianti cerebrali medici da decenni. Come spiega Fernandez, “esistono molti dispositivi elettrici che interagiscono con il corpo umano, come il pacemaker o l’impianto cocleare.”
Un impianto cocleare è la versione uditiva della protesi costruita da Fernandez per Gómez: un microfono esterno e un sistema di elaborazione trasmettono segnali digitali a un impianto nell’orecchio interno. Gli elettrodi dell’impianto inviano impulsi di corrente ai nervi ed il cervello li interpreta come suoni. L’impianto cocleare, in uso dal 1961, viene utilizzato da mezzo milione di persone in tutto il mondo.
L’esperimento di Fernanzdez ha richiesto tutto il coraggio di Bernardeta Gomez. Installare l’impianto richiede un intervento chirurgico al cervello su un corpo altrimenti sano, una procedura rischiosa che è stata ripetuta sei mesi dopo per rimuoverlo, in quanto l’utilizzo della protesi non è approvato a lungo termine. A un anno e mezzo dalla rimozione dell’impianto, una risonanza magnetica rivela che Gómez è in buone condizioni. Non rimane praticamente alcuna traccia della presenza del dispositivo sulla sua nuca, né ha mai avuto problemi o dolori.
La storia degli esperimenti che hanno portato a quest’ultimo impianto non è semplice. Nel 1929, un neurologo tedesco di nome Otfrid Foerster scoprì di poter provocare la visione di un punto bianco in un paziente cieco inserendo un elettrodo nella corteccia visiva del suo cervello durante un intervento chirurgico. Il fenomeno prese il nome di fosfene.
All’inizio degli anni 2000, un ricercatore biomedico di nome William Dobelle installò una versione sperimentale di protesi nella testa di un paziente. Il paziente cadde a terra in preda ad un attacco di contorsioni: era stata usata troppa corrente. I pazienti di Dobelle andarono incontro anche a problemi di infezione. Dobelle mise comunque in commercio il proprio ingombrante dispositivo fino al 2004, anno della sua morte.
A differenza di Dobelle e a dispetto dei successi ottenuti con Gomez, Fernandez non pretende di avere una cura per la cecità. L’idea di base, collegare una videocamera a un cavo video connesso al cervello, appare semplice, ma non lo è. Per creare la telecamera, Fernandez e colleghi hanno prima dovuto studiare i segnali prodotti da una retina umana studiando le retine di individui da poco deceduti. I ricercatori hanno connesso queste retine ad elettrodi, per poi esporle ad una sorgente luminosa ed analizzare la reazione degli elettrodi (una retina umana può essere mantenuta in vita per circa sette ore.) I ricercatori hanno fatto uso di sistemi di apprendimento automatico per abbinare l’output elettrico della retina e semplici input visivi, e creare il software che riproduce il procedimento automaticamente.
Tocca poi trasmettere questo segnale al cervello. Nel caso della protesi costruita per Gómez, una connessione cablata è connessa ad un comune neuro-impianto noto come array Utah, appena più piccolo della punta in rilievo sull’estremità positiva di una pila AAA. Dall’impianto sporgono 100 minuscole punte di elettrodi, ciascuna alta un millimetro circa. Ogni elettrodo alimenta da uno a quattro neuroni. Una volta inserito l’impianto, gli elettrodi perforano la superficie del cervello; quando viene rimosso, 100 piccole goccioline di sangue si formano nei fori. Fernandez ha calibrato un elettrodo alla volta, inviando a ciascuno correnti sempre più forti fino ad ottenere un fosfene. La procedura ha richiesto più di un mese.
“Il vantaggio del nostro approccio è che gli elettrodi dell’array sono posti vicino ai neuroni”, spiega Fernandez, si ottiene quindi la vista con una corrente elettrica molto più bassa di quella richiesta dal sistema di Dobelle. Lo svantaggio è che nessuno sa quanto tempo possono durare gli elettrodi prima che l’impianto degradi o il cervello subisca danni. “Il sistema immunitario del corpo inizia ad aggredire gli elettrodi e circondarli di tessuto cicatriziale, indebolendo così il segnale”, spiega Fernandez.
Dalle ricerche condotte sugli animali, un altro problema nasce dal fatto che gli elettrodi si flettono quando l’utente si muove. Gómez suppone che l’attuale installazione possa durare tra i due e tre anni, al massimo 10. Fernandez spera di poterne estendere la vita di qualche decennio, un prerequisito fondamentale per un pezzo di hardware medico che richiede un intervento chirurgico invasivo al cervello. Infine, la protesi, come nel caso degli impianti cocleari, dovrà poter trasmettere segnale e alimentazione agli elettrodi in modalità wireless.
Ad una risoluzione di 10×10 pixel, approssimativamente la massima risoluzione ottenuta dall’impianto utilizzato dalla Gómez, si possono percepire forme base come lettere, porte o marciapiedi. I contorni di un viso, per esempio, sono molto più complicati. Fernandez ha quindi potenziato il sistema utilizzando un software di riconoscimento delle immagini capace di identificare una persona e trasmettere al cervello uno schema di fosfeni caratteristico che Gomez ha imparato a riconoscere.
Secondo Fernandez, a 25×25 pixel “si recupera la vista”. Date le loro dimensioni minute, si potrebbero installare tra i quattro o sei array Utah per ciascun lato del cervello, per ottenere una visione da 60×60 pixel o più. Non è però chiaro quanti input il cervello umano può ricevere da simili dispositivi senza essere sopraffatto. Gómez spiega che avrebbe tenuto l’impianto se fosse stato possibile e intende essere la prima a ricevere la versione aggiornata.
Nel laboratorio di Fernandez, ho testato una versione non invasiva del dispositivo utilizzata per selezionare i pazienti. Un neurologo ha appoggiato al lato della mia testa una bacchetta dotata di due anelli. Il dispositivo, chiamato bobina a farfalla, è collegato a una scatola che eccita i neuroni nel cervello grazie ad un potente impulso elettromagnetico, un fenomeno chiamato stimolazione magnetica transcranica. La prima stimolazione è uno shock per il cuoio capelluto. Sento le dita delle mie mani che si piegano involontariamente nei palmi. “Ha funzionato!” spiega Fernandez. “Questa era la tua corteccia motoria. Ora proveremo a procurarti alcuni fosfeni. “
Il neurologo riposiziona la bacchetta e prepara la macchina all’invio di una rapida serie di impulsi. Sento un intenso zzp-zzp-zzp, come se qualcuno stesse suonando un campanella sulla mia nuca. Quindi, pur avendo gli occhi spalancati, vedo qualcosa: una brillante linea orizzontale lampeggia al centro del mio campo visivo, insieme a due triangoli luccicanti pieni di segnali visivi simili alle interferenze televisive. La visione si lascia alle spalle solo un breve bagliore.
“Questo è come ciò che vedeva Berna”, dichiara Fernandez. Eccetto che la sua “vista” era stabile, in quanto il segnale veniva trasmesso direttamente Gomez poteva anche girare la testa e, grazie agli occhiali, guardarsi intorno. Io non ho visto che le ombre interne di un cervello eccitato elettricamente. Gómez era in grado di muoversi e toccare il mondo che non vedeva da 16 anni.
Immagine: Segnali elettrici del cervello di Bernardeta Gómez. Ogni riquadro rappresenta uno degli elettrodi, mentre le linee ondulate mostrano i segnali dei relativi neuroni che si attivano. Russ Juskalian
(lo)