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    100 anni e non li dimostra

    Nell’anno del centenario della sua nascita, la comunità scientifica internazionale si sta mobilitando per recuperare, celebrare, ma anche discutere l’opera di Marshall McLuhan (1911-1980), il più controverso e stravagante, ma forse il più originale e significativo teorico dei mass media.

    In Italia, in modo particolare, le attività hanno avuto inizio già alla fine del 2010, per iniziativa del network universitario Mediascapes, che, con la regia di Alberto Abruzzese e Giovanni Ragone, ha organizzato alcune importanti giornate di studio presso l’Università IULM di Milano: il 15 ottobre, con la partecipazione di Joshua Meyrowitz e Giovanni Boccia Artieri; il 20-21 dicembre, con interventi, tra gli altri, di Renato Barilli, Gianpiero Gamaleri, Elena Lamberti, Carlo Formenti, Derrick de Kerckhove.

    Altri incontri seguiranno, nel corso del 2011, presso la Sapienza Università di Roma e presso l’Università Roma Tre, dedicati anche alla individuazione e alla valorizzazione di alcuni materiali inediti di McLuhan, resi disponibili dal fondo David Miller e attualmente in corso di pubblicazione presso l’editore Armando.

    Tutti ricorderanno Marshall McLuhan nella celebre scena del film Io e Annie che valse a Woody Allen quattro Premi Oscar, lanciandolo nel grande cinema: «Lei non ha capito assolutamente nulla del mio lavoro», diceva il già famoso studioso dei media a un malcapitato spettatore che cercava di fare colpo sulla sua ragazza, citandolo evidentemente a sproposito. Pochi, forse, sanno che Allen non voleva tanto prendere in giro la moda mcluhaniana di quegli anni, né il fatuo citazionismo di quanti, senza leggere, ci tengono a dimostrarsi lettori accaniti; Allen, in realtà, prendeva in giro, simpaticamente s’intende, proprio McLuhan, che si dice quella frase ripetesse spesso ai suoi studenti e che, tuttavia, almeno in quella occasione, seppe stare, un poco narcisisticamente, al gioco.

    Cominciamo nel modo più marginale e aneddotico possibile questa rievocazione del pensiero dello studioso canadese, proprio perché la circostanza motivante – il prossimo centenario della nascita (21 luglio 1911), che quasi coincide con l’appena trascorso trentennale dalla morte (31 dicembre 1980) – finirà per provocare un’alluvione esegetica, se non addirittura apologetica, da cui non resteranno esenti né i suoi comportamenti più stravaganti né le sue eterodosse abitudini mentali.

    Nonostante qualche “sprezzatura” tipicamente anglosassone (canadese di origine scozzese qual era e quale si vantava di essere), di McLuhan non si parlava, per la verità, come di un uomo particolarmente strano: strano è apparso, se mai, il mondo che egli “messianicamente” ci ha “rivelato”: un mondo che gli studiosi prima di lui per lo più descrivevano perfino troppo vestito, rutilante, enfatico, tumultuoso e che il fanciullino, falso ingenuo, McLuhan ha, invece, dichiarato inopinatamente nudo. Insegnandoci a guardarlo in tralice, come un effetto ottico, un’anamorfosi, nella quale bisogna sforzarsi di ricostruire, se possibile, un orizzonte di intenzionalità frammentate e sparse nei giochi combinatori delle vecchie e nuove, piccole e grandi narrazioni.

    Da quel momento, non soltanto per gli addetti ai lavori, nulla è stato più come prima. Questo è uno dei risultati più importanti, oltre che interessanti, della riscoperta dell’opera mcluhaniana che possiamo attenderci dalla ricorrenza e che può aiutarci a tematizzare la singolarità del Novecento, in cui si è svolta tutta la vita e l’opera di McLuhan e da cui ci separa ormai un passaggio di secolo e una commutazione di codice: da quello analogico a quello digitale, che McLuhan non conosceva ancora, ma la cui “convergenza” aveva certamente presagito, come Nicholas Negroponte riconobbe più tardi. Non si tratta, infatti, di capire un poco meglio un pensiero programmaticamente oscuro, da un punto di vista sia epistemologico, sia etico, ma di riprendere coscienza di un mondo che troppo spesso si vorrebbe cogliere in una chiave di continuità, invece di valorizzarne gli scarti, le convulsioni, la vera e propria rivoluzione che comporta e che è “mediatica” – cioè che mette in relazione persone e cose, spazi e tempi diversi e talvolta apparentemente incompatibili – perché non è mai soltanto mediatica, non si esaurisce nel consumo informativo, culturale o ludico: basta pensare a quanto sta avvenendo nella sponda meridionale del Mediterraneo, e alla contrastante fluttuazione di aspettative e di preoccupazioni che comporta.

    Il “caso” McLuhan

    Come si vede, il caso McLuhan è un “caso” perché non richiede soltanto di rimettere mano a opere che spesso giacevano ingiustamente dimenticate in polverosi scaffali, ma anche di rimettere in moto una faticosa pratica di confronti, tra il prima e il dopo, tra le sempre famigerate due culture e, last but not least, tra “analitici” e “continentali”, per riprendere una vecchia polemica atlantica. Non a caso, “Technology Review”, che tra le due sponde dell’Atlantico stende ormai da decenni la propria rete, ha per tempo avviato e promosso questa “riscoperta” mcluhaniana: nel quarto fascicolo dello scorso anno, con una intervista di Gianpiero Gamaleri, che con i suoi saggi e le sue traduzioni ha sempre mantenuto alta in Italia la bandiera del mediologo di Toronto; nel sesto fascicolo dello scorso anno, con una riflessione “letteraria” di Gian Piero Jacobelli in merito a un programma autunnale dello IULM, intitolato significativamente Il secolo di McLuhan, da cui provengono anche gli interventi pubblicati nelle pagine che seguono.

    Perché dunque Marshall McLuhan è un autore ancora tanto attuale, a fronte di uno scenario tecnologico e culturale così diverso da quello che aveva conosciuto? Le tante risposte che si sono susseguite, a volte a complemento l’una dell’altra, a volte in metodologico contrasto, lasciano intendere le tante dimensioni in cui può venire affrontata l’opera mcluhaniana, in vastità e in profondità, e sarebbe impossibile, oltre che inutile, tentarne una sintesi. Banalizzando, si potrebbe soltanto rilevare come McLuhan sia un testimone impareggiabile del fatto che sta succedendo qualcosa, e ciò non è sempre scontato; che questo qualcosa concerne non soltanto i rapporti tra noi, ma soprattutto quelli tra noi e gli altri; che quindi non possiamo stare a vedere cosa succede, ma dobbiamo quotidianamente porre in atto un impegno di “comparazione e sintesi” tra le contrastanti sollecitazioni, identitarie e relazionali, in una parola, etiche, che ci provengono sia dal passato, sia dal futuro.

    Il futuro è un territorio del passato

    “Il futuro è un territorio del passato”: questo è uno degli aforismi di McLuhan, forse non altrettanto noto e ripetuto quanto “il mezzo è il messaggio”, ma certamente molto stimolante e profondo. Mette in rilievo, infatti, il problema delle radici culturali del cambiamento, suggerendo che le profonde trasformazioni indotte dalle tecnologie possono essere gestite solo se si riflette sulla propria tradizione, sulle proprie origini. Non perché il passato costituisca un principio normativo per il futuro, ma perché le due istanze, psicologiche non meno che sociologiche e tecnologiche, devono restare dialetticamente connesse. Si tratta, insomma, di scoprire il “filo rosso” che lega passato, presente e futuro, stabilendo dei nessi capaci di cogliere i valori permanenti del cambiamento stesso, anche quando così accelerato come l’attuale.

    Fino dagli anni Sessanta, la riflessione di McLuhan ha cercato di conciliare le diverse dimensioni della memoria e dell’attesa in una creativa concezione del desiderio, non a caso proposto come una vera e propria opera d’arte. Leggiamo la conclusione di una sua intervista, rilasciata a Eric Norden nel marzo del 1969, che, con sorprendenti accenti poetici, costituisce anche il suo testamento intellettuale e morale: «Nei prossimi decenni spero di vedere il nostro pianeta trasformarsi in un’opera d’arte; l’uomo nuovo, integrato nell’armonia cosmica che trascende il tempo e lo spazio, accarezzerà, forgerà e modellerà ogni aspetto dell’artefatto terrestre come se fosse un’opera d’arte e l’uomo stesso diventerà un’organica forma d’arte. C’è un lungo cammino da percorrere e le stelle sono soltanto stazioni di cambio, ma abbiamo cominciato il viaggio. Nascere in questo tempo è un dono prezioso e rimpiango la prospettiva della mia morte soltanto perché non potrò leggere così tante pagine del destino dell’uomo, se mi è permessa l’immagine alla Gutenberg. Ma forse, come ho cercato di dimostrare nella mia analisi della cultura postalfabetica, la storia comincia soltanto quando il libro si chiude». Dove l’afflato cosmico non rappresenta una fuga in avanti, ma sta a significare che un “destino” non è mai un punto di arrivo, ma di partenza.

    La finestra McLuhan, quella finestra luminosa e misteriosa che nello shakespeariano Romeo e Giulietta si accende dietro le spalle dei protagonisti come un ipnotico segnale di attenzione, deve riaprirsi al mondo, trasgredendo e rimuovendo la sua stessa ossimorica fascinazione. In questo senso, gli interventi che seguono non si limitano a considerare ed esplorare gli aspetti “mediatici” che hanno conferito a McLuhan i tratti del profeta che vede lontano, ma ne affrontano a tutto campo anche quella dimensione storica e letteraria, che spesso inaspettatamente ne rivela la incisività e la radicalità problematica. Quella problematicità che non ci dice cosa sta succedendo, ma cosa può o non può succedere “se”: se sapremo affrontare la situazione senza perdere di vista gli obiettivi della convivenza; se saremo in grado di capire che non esistono soluzioni fuori di noi; se sapremo tornare a vivere e non soltanto lasciarci vivere.

    Dall’esplosione all’implosione

    Questa tendenza è stata condensata da McLuhan nello slogan “dall’esplosione all’implosione”. Dalla logica “esplosiva” (dal dentro al fuori) o anche “esplorativa” tipica dell’Ulisse dantesco si è inesorabilmente passati alla logica “implosiva” (dal fuori al dentro) o anche “riflessiva” del rispecchiamento del mondo in noi e della fondazione di un nuovo modello di conoscenza e di una nuova etica rispetto a tutto ciò che ti “piove addosso”, anche non richiesto, come conseguenza dei processi di interconnessione globale. L’insegnamento più profondo e duraturo di McLuhan è proprio questo: il percorso della conoscenza si è invertito e lo sforzo che fino a ieri era quello di cogliere il “fuori di noi” diventa oggi quello d’interrogarci sul “dentro di noi”. Ciò significa conoscenza critica, senso di responsabilità e, soprattutto, l’affermazione e la promozione di nuove forme di solidarietà capaci di farci crescere proprio là dove sembra che il nostro spazio vitale venga compresso, se non compromesso. “Compressione”, “compromissione”: concetti tipicamente mcluhaniani, che etimologicamente derivano entrambi da qualcosa che non si può non fare insieme e che comporta degli obblighi reciproci per andare a effetto. Proprio il contrario di quanto comunemente si pensa!

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